Se il filosofo Karl Popper fosse ancora tra noi, probabilmente si metterebbe le mani nei capelli. Non tanto per la piega dei tempi – che già ai suoi occhi apparivano drammatici – quanto per il livello di regressione concettuale che circola con disinvoltura nei talk show, nei comizi e persino in certi ambienti accademici americani.
Immaginate l’autore de “La società aperta e i suoi nemici”, profeta del pensiero critico e della tolleranza, trovarsi improvvisamente davanti a un presidente che propone di risolvere ogni problema a colpi di dazi, confini chiusi, slogan identitari e sospetto verso l’altro. Un uomo che costruisce muri, mentali prima ancora che fisici, e chiama tutto ciò “sicurezza” e “interesse nazionale”.
Popper, che ha vissuto il Novecento con tutte le sue ferite, avrebbe probabilmente riconosciuto in queste parole un ritorno in grande stile dei “nemici” della società aperta(Hegel, Marx, Platone): coloro che temono la libertà, che preferiscono il dogma alla discussione, l’autorità alla critica, la chiusura al dialogo. E tutto questo, travestito da buon senso.
Ma c’è un dettaglio che spesso si dimentica: Popper non era un ingenuo sognatore. Il suo liberalismo non era buonista, ma profondamente razionale. Credeva che una società libera si regge non sull’ingenuità, ma sulla capacità di autocorreggersi, di discutere, di cambiare rotta. Non aveva paura della complessità: l’abbracciava.
Trump, invece, sembra aver letto solo la copertina dei suoi libri. O forse manco quella.
Ecco perché, se Popper potesse ascoltarlo oggi, probabilmente non si limiterebbe a impallidire: si metterebbe a scrivere un altro capitolo. Aggiungendo Trump ai già citati Hegel, Marx, Platone.
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